Milioni di topinambur crescono nei campi appena fuori dall’autostrada.
Sono selvaggi e non appartengono a nessuno, così come crescono moriranno, non c’è una mano che li colga per metterli in un vaso al centro del tavolo in salotto e nemmeno che scavi abbastanza a fondo da recuperare le radici per scaldarsi con una zuppa in una sera d’inverno.
Penso a tutte queste cazzate mentre cammino lungo la via dei pullman e uno straordinario cavallino da corsa nero punta lo zoccolo impaziente senza riuscire a vedere niente di quello che gli succede intorno. Se si potesse spiegargli il ciclismo, non sarebbe molto lontano da una corsa folle da bendati, senti solo la velocità e tutto il resto rimane fuori.
Sotto invece, nelle cantine storiche di questo paese, spirano da millenni le correnti d’aria gelide dalle viscere della montagna. La gente ci ha costruito sopra le case con i caminetti e tutto il resto perché si sa, il freddo è necessario, finché non arriva al cuore.


Sotto il portico di viti affacciato su una tranquilla stradina di campagna c’è un tipo che fuma il sigaro e racconta ai suoi tre compari cose della sua vita, in parte lugubri e in parte allegre come una specie di stornello medievale. Sul tavolo c’è il vino rosso e il caffè, l’elicottero sorvola la corsa in lontananza.
Primo passaggio.
Com’è chiudere gli occhi dopo pranzo con il sole del primo pomeriggio che filtra appena dalle retine alle finestre e il silenzio che ti invade la testa con il suo oblio perfetto? L’esistenza a volte è simile ai sogni, li tocchiamo così da vicino che ci sembrano veri, e poi ci svegliamo sempre allo stesso punto. Così sono gli ultimi chilometri di corsa in cui, certe volte, mi sembra di essere lì per la prima volta, senza saper gestire l’ansia dell’ultimo chilometro quando tutto va secondo i piani o completamente a puttane. Com’è chiudere gli occhi e sentire il sudore che scorre come il sangue? I mille vuoti sospesi di tutte le stagioni passate e quelli di adesso.
Se c’è una cosa che abbiamo imparato è che bisogna accettare tutto, senza nemmeno tante spiegazioni.

Mentre torno verso Milano, il sole è una palla rossa astratta come in un quadro di Mirò, le ammiraglie sfilano con insolita calma e io sento di nuovo le correnti gelide che spirano dalle montagne direttamente nelle crepe delle mie viscere, tornano a gelare tutto crudelmente come fanno le ossa, di tanto in tanto, nei punti dove sono state spezzate.
Proprio davanti ad un’uscita compare la sagoma di una cascina distrutta per metà dal tempo attraverso la quale filtra la luce sbiadita del tardo pomeriggio e dove forse qualcuno ha lasciato involontariamente tesori sepolti che non verranno mai ritrovati.
Come noi, anche lei continua ad esistere senza nessun particolare destino.
Nei pressi dell’abitato di Borgofranco d’Ivrea si trovano i Balmit, una serie di cantine naturali addossate alle rocce moreniche del massiccio del Mombarone. La loro peculiarità è spiegata da un singolare fenomeno geo-naturale: le correnti d’aria - localmente chiamate òre - spirano dalle viscere della montagna infilandosi nelle fenditure delle rocce lasciate dal Ghiacciaio Balteo e consentono di mantenere una temperatura attorno agli 8 gradi sia in estate che in inverno.