Varese è ancora come l’ho lasciata, sonnecchiante nella sua allure anni Settanta, con i palazzi di mattoncini lucidi e le ville stile impero nascoste tra i giardini vegliati da cedri secolari. Una specie di romanzo senza tempo, imbevuto in una luce triste e allo stesso tempo confortante che dipinge appena le foglie dei colori autunnali.
Metà delle autorità che ci sono qui – e anche tre quarti – non capisce un cazzo di ciclismo: si meravigliano di quanto vadano forte, parlano di progetti assurdi mentre a stento chiudono la viabilità quando c’è la corsa e si domandano chi salirà sul palco a premiare, prima ancora che ci sia un vincitore. Ma è questo che conta adesso, no? Avere un ruolo, essere qualcuno, avere potere.
Per fortuna il ciclismo ha anche i suoi luoghi appartati, lunghi vialoni dell’esistenza in cui il gruppo va a tutta ma c’è comunque il tempo di girarsi un’ultima volta, dire alle ville abbandonate che loro ancora vivono negli occhi di chi le guarda, anche se sembrano inabitate da secoli. Qui non dobbiamo essere nessuno di particolare, niente di quello che ci chiedono o che pretendono. Questo è ancora il fantasma dei nostri Natali passati che ci dice che è troppo tardi, che non fa niente, che oramai il veleno ha preso il sopravvento anche se l’antidoto era forte, anche se l’antidoto era perfetto.
Le gambe lo sanno meglio della testa, lo sanno che oramai è andata.
E’ andata così.

Di sicuro la gente si mangia il fegato a vedere Ilan Van Wilder là davanti, che accorcia sempre di più le speranze di vedere un big sul primo gradino del podio. Lui, uno fuori dai pronostici, lanciato in un circuito dove le fughe sono pressoché assurde. Lui che trascina tutti in un bagno di umiltà mentre alza le braccia al cielo e poi ha il coraggio di dire quello che forse nessuno avrebbe detto in un’intervista pubblica. I corridori non hanno mai saputo rispondere alla guerra con la guerra – non ne sono capaci – ma di sicuro hanno altre armi. e un’alleanza con chi li ama davvero che è pressoché indistruttibile.

Le cose fluiscono, vanno come devono – forse non come dovrebbero – e noi restiamo a guardare le persone che si accalcano ai bus solo per vedere un orecchio o un pezzo di testa di qualcuno che li ha fatti sognare.
I miliardari non possono sapere che questo è il nostro angolo di mondo salvato dalla rovina, il nostro folle antidoto iniettato in un corpo morente.
Per quell’istante, il resto non importa.

Un antidoto è un farmaco capace, tramite un meccanismo chimico o chimico-fisico, di trasformare un agente tossico in un composto innocuo o scarsamente lesivo. Quando un avvelenamento si spinge oltre ad una certa soglia, il danno risulta irreversibile.