La campagna è piatta come un biliardo e le cascine rosse sparse qua e là per la pianura emiliana sono chiuse nel caldo anomalo del mezzogiorno. Rosso è anche il serpente di portici che porta a San Luca in una via crucis dove la gente ha scritto messaggi sui muri per chi passa da lì, in agonia o in preghiera.
Non c’è silenzio alla curva Pantani, i tuoi pirati sono lì ad aspettarti come se ancora stessi per alzarti sui pedali nel punto più duro, ovunque i loro occhi senza sonno vedono la tua figura sospesa voltarsi indietro, a contemplare il vuoto mistico dopo l’attacco.
ll ciclismo è uno sport dove per il novanta per cento delle volte il dolore non ha senso: ti pieghi sulla bici come un dannato solo per restare nel tempo massimo o stringi i denti fino a che ti scoppia la testa solamente per arrivare quartultimo. Poi c’è comunque quel dieci per cento, dove il dolore è l’orizzonte di beatitudine, giornate sì in cui volare ti riesce bene persino nel punto in cui tutti gli altri perdono le ruote. Sono cose inspiegabili, o le accetti o lasci perdere. E’ un patto di lealtà: accetto il meglio e pure il peggio, prometto di essere fedele sempre, in luce e in ombra.

Così i porticati che costeggiano la corsa incidono i corridori tra sole e buio, lame che tagliano in due come le pendenze fanno con le gambe. Ci sono legami tra uomini e luoghi che sono fatti per restare, come quello tra Roglic e il San Luca che lo fa vincere secco, come se fosse già scritto dal chilometro zero. Basta, è sua, punto. E lui felice come un bambino con la sua mega mortadella sottobraccio. Nessuno sa perché gli piaccia così tanto, forse sarà legata a un ricordo: un’immagine possiamo dimenticarcela ma un sapore no. Quello amaro e croccante della polvere sul Carrefour in una giornata di vento o quello dolce e caramelloso di una torta sfornata. Colpire a fondo, ecco cosa.
Chiudiamo gli occhi e quell’istante è lì.
Quando li apro c’è tutta Bologna nel sole del pomeriggio: niente di romantico, né di prosaico. Solo una città ai nostri piedi e la confusione di un mondo che va sempre troppo veloce senza che nessuno riesca a fare il vuoto.

Il sole è una palla rossa infuocata che scivola lungo l’orizzonte sopra le campagne costellate di recinzioni arancio dei lavori in corso che sembrano dei fettucciati del cross.
Il tramonto si scioglie in un incendio, ricorda ai vagabondi che sta arrivando ottobre, che bisogna radunare tutto in uno zaino e tornare a casa mentre si scribacchiano gli strani sogni delle notti solitarie su un taccuino per vedere se – prima o poi – significheranno qualcosa o comporranno soltanto la storia della nostra esistenza.
Antico, rosso, striato di rame, ancestrale.
Adesso le ferite sono solo invisibili cicatrici quiete sul far della sera.
Secondo la filosofia taoista e zen, il vuoto è considerato come lo spazio necessario perché il soffio vitale (Ki) possa agire in un flusso continuo. È da intendersi quindi un “vuoto utile”, ricco di potenzialità espressive. Senza il vuoto, la pausa, il tempo sospeso, lo spazio, nulla potrebbe accadere e trasformarsi.