C’è solo una cosa peggiore di fare colazione al bar da soli ed è sentirsi dire: “Ho finito le brioches”.
Ho un picco di nervoso, voglio piangere e forse voglio anche tornare a casa a dormire. Ma poco dopo la rotonda c’è un altro bar: sbircio dentro ed è tutto vuoto come se fosse abbandonato, niente di niente negli espositori come se fosse lì cristallizzato dagli anni cinquanta. Un tipo arriva tutto trafelato.
“E’ chiuso?” gli chiedo.
No.
E mi apre una specie di porta spazio temporale dove però, magicamente, ci sono le brioches e in un frigo di almeno venticinque anni fa spunta pure l’Estathè al limone. Non ci credo: guardo il mio salvatore con gratitudine mentre lo scontrino segna un prezzo da 2003. La brioche è normale ma dopo questa esperienza metafisica mi sembra sia la più buona dell’universo. La Brianza è sempre stata strana, un giorno sei più concreto di un mobile a Lissone – cit – e un altro segui l’utopia della tua vita come un film senza finale. È colpa di questa contrapposizione se siamo sempre incazzati, abituati a calcolare il rischio come i momenti per uscire senza traffico e poi sconsideratamente idioti nel buttarsi in tangenziale nell’ora di punta solo per raggiungere qualcuno a cui teniamo.
Sul Lissolo la luce è ingestibile come sempre, con le maledette robinie che mettono chiazze di ombre nette e il sole di settembre che dovrebbe essere dolce e malinconico ma qua è solo assassino, con quelle rampe che sbucano dal bosco dove è letteralmente impossibile fare delle foto normali. Il fan club di Marco Tizza ha un faccione gigante di lui e un astronauta atterrato da chissà dove che fa il caffè alla gente che passa mentre il sole ha ancora il potere di farti sentire un ghiacciolo a ferragosto nelle mani di un bambino di otto anni. Il ciclismo è fatto per portarti altrove, su un altro pianeta per esempio, per mettere in pausa la vita, lasciare il resto fuori, galleggiare nello spazio, raggiungere il Nirvana.

Mi siedo su una panchina. Sono stanca morta e chiudo gli occhi per un secondo. Sento che come sempre, si parla di quando correva Moser e Merckx e Gimondi. Ma perché non riusciamo a staccarci dal maledetto passato? Non sarebbe bello che la malinconia se ne andasse per essere vivi nel presente, al massimo dell’azione? In quello stesso istante c’è qualcuno che si rompe la clavicola e qualcun altro che scatta nel punto più duro: è questa contraddizione che ci fa incazzare ma il ciclismo è così, a volte brutale e a volte tenero che non capisci bene come comportarti, se farti soggiogare dalla depressione o gasarti al massimo. Ma sarebbe più pericoloso avere un tasto di stop per le montagne russe, verremmo sbalzati via e fine dei giochi: né male ma neanche bene. Semplicemente la fine.

In tv trasmettono la sintesi della corsa, cinque minuti di numero per far spazio ad altri quattro servizi di amarcord, a testimonianza di come il ciclismo sia letteralmente incapace di vivere il presente. Ho le gambe tranciate in due come se avessi pedalato io e voglio solo lamentarmi. Non sarebbe così se avessimo la nostra volpe da accudire – non centomila volpi, solo la nostra. Allora probabilmente non ci incazzeremmo più per niente.
Persino il giorno peggiore, sarebbe perfetto.
La volpe è uno dei personaggi più significativi de “Il Piccolo Principe” di Antoine De Saint-Exupèry. In un passaggio del libro, l’animale spiega al protagonista il significato dell’addomesticazione intesa come creare dei legami, avvicinandosi a piccoli passi ad un essere vivente, iniziando a tenere a lui e considerandolo unico al mondo. La volpe si congeda dal piccolo principe dicendogli: “Tu diventi responsabile per sempre di tutto quello che hai addomesticato.”