Come capita spesso, la TV è accesa senza audio.
Mentre vanno in onda le solite pubblicità, io scorro distrattamente il feed di Twitter – mi rifiuto di chiamarlo X – e un thread che parla di Chernobyl attira la mia attenzione, senza un motivo preciso in realtà. È la storia di tre ingegneri che, dieci giorni dopo l’incidente, si immersero nelle acque radioattive per trovare e aprire le valvole di rilascio che avrebbero scongiurato le esplosioni di vapore provocate dal nocciolo del reattore 4, che stava per piombare rovinosamente nelle pozze d’acqua formatesi dopo la rottura dell’impianto di raffreddamento.
La missione era chiaramente suicida ma le conseguenze altrimenti sarebbero state catastrofiche. Alexei Ananenko era l’uomo che conosceva la posizione della valvola, gli fu data la possibilità di rifiutare ma lui entrò comunque, insieme ad altri due ingegneri, immergendosi nel buio della camera del reattore inondata dall’acqua con una fioca torcia subacquea che si spense definitivamente poco dopo aver trovato il tubo che conduceva alle valvole.
Per anni si è creduto che i tre fossero morti subito dopo, in seguito alle massicce radiazioni. Invece Branov se ne andò nel 2005 per insufficienza cardiaca mentre Ananenko e Bezpalov sono, al giorno d’oggi, ancora vivi.
Si ritiene infatti che l’acqua abbia assorbito molte più radiazioni di quanto inizialmente creduto e alla fine abbia salvato loro la vita.
Chiudo l’app, appoggio il telefono. La mia testa vola altrove, sette mesi prima, in una giornata con il vento a frustate e il mare grigio azzurro luccicante come è spesso il Mediterraneo nelle giornate di primavera. Tutt’attorno le vasche di contenimento dell’acqua piovana grigie di cemento come le torri di raffreddamento delle centrali nucleari, dentro ci si specchia il cielo iridescente e inquieto per la bufera che scuote le palme. Io sotto il cartello Poggio con gli occhiali e la mia tuta da sommozzatore che penso alle missioni suicide, alle volte in cui il cervello mi diceva “non andare” ma tutto il resto ha deciso l’opposto. Immobile, mentre in via Roma c’è il delirio della gente abbarbicata alle transenne alte, perché in fondo l’arrivo è tutto e io lì, fissa nella mia convinzione che l’occhio del ciclone sia sempre altrove. Isolata nel buio con la mia torcia spenta, resto nel metro esatto dove Mathieu van der Poel scatta per andare a vincere la Milano – Sanremo e non mi accorgo di avere nella reflex una foto praticamente unica al mondo.
Uno può pensare che sia pazza – e non lo escludo – ma il ciclismo è così, ti chiede deliberatamente di toglierti la vita e poi te la ridà in modi inaspettati.
Quattro mesi dopo, sulle rampe slovene di un’altra giornata memorabile, un amico mi ha chiesto perché non l’avessi venduta a qualche giornale e io ammetto di non averci mai pensato.
Poi mi sono detta: ma si può vendere un regalo?
La TV continua a trasmettere immagini senza suono. Fuori c’è il silenzio del mondo salvato per miracolo – quella volta e chissà quante altre – testimoniato da noi che lo viviamo ogni giorno come schegge fuori controllo.
Gli errori umani che compongono la nostra realtà non possono certo competere in intensità con i miracoli inaspettati che avvengono ogni volta che ci caliamo nel buio senza sapere quello che accadrà. Non è coraggio, non è neanche incoscienza e nemmeno senso del dovere. Sono le nostre scelte. Semplicemente sappiamo di aver fatto la cosa giusta, sacrificando tutto per qualcosa che per noi valeva la salvezza.
Di nuovo, come fanti in prima linea, sappiamo che è quello il posto in cui andare – o farsi trovare.
Non esistono altre opzioni.
Bellissimo accostamento… io che sono amante del
Meraviglioso…..chiudo gli occhi e sono sul poggio